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Sabato, 20 Aprile 2024
Squadra Mobile

Telefonini ai boss dentro al carcere di Bologna, si chiude maxi inchiesta con 50 indagati: ci sono anche 2 agrigentini

Centinaia di dispositivi sequestrati: quasi tutti i dispositivi erano destinati all'area di alta sicurezza, dove sono alloggiati gli esponenti della criminalità organizzata

Più di 100 tra smartphone e microtelefoni, almeno altrettante sim. E' il saldo di una maxi inchiesta sul traffico illecito di materiale proibito dentro al carcere della Dozza di Bologna, strumenti destinati ai capi della criminalità organizzata per continuare a gestire il malaffare anche da dentro le mura della casa circondariale. In tutto, nel fascicolo che si appresta a chiudere il pm Roberto Ceroni, vi sono - come scrive BolognaToday - circa 50 indagati. E fra questi anche due agrigentini: Antonino Chiazza, 53 anni di Canicattì, e Carmelo Nicotra, 40 anni di Favara. Chiazza è stato arrestato, ed è attualmente sotto processo, nell’ambito della maxi operazione antimafia Xidy. Nicotra è stato uno dei protagonisti della faida Favara-Liegi ed è stato condannato in primo grado a 5 anni e 4 mesi lo scorso giugno.

La maxi inchiesta della Procura bolognese ha preso in esame gli ultimi due anni e ha interessato anche personale esterno al penitenziario. Quasi tutti gli indagati sono detenuti, ma nel fascicolo vi sono addebiti anche verso una avvocata, accusata di avere fatto da veicolo per stupefacenti e telefoni.

Un lavoro, quello del pm Ceroni che sottotraccia aveva già trovato modo di emergere. Come quando la polizia penitenziaria e la Mobile intercettarono la consegna di alcuni telefoni tramite un drone, fatto volare sopra le mura di cinta della Dozza. Ma agli atti vi sono anche altri episodi, dove un po' tutte le organizzazioni malavitose avevano trovato il modo di far recapitare ai propri affiliati microtelefoni e smartphone. In una occasione anche un fornitore esterno della casa circondariale fu trovato a trafficare sia cellulari che stupefacente.

Affiliati, ma anche boss e killer di 'ndrangheta, mafia, Camorra, mafia albanese, marocchina e nigeriana, tutti in qualche modo avevano o potevano avere accesso ai 'servizi' di un device elettronico, accesso che dietro le sbarre solitamente diventa strumento potentissimo per aumentare potere e controllo su altri detenuti, disposti a favori e riconoscenza per una telefonata fuori dalle maglie della procedura penitenziaria.

Il boss detenuto, il corriere fidato e i nascondigli impensabili: così droga, cellulari e sim sono entrati in carcere

cine di telefonini e carica batterie, qualche volta anche della droga, oltre naturalmente alle Sim per fare funzionare i devices. Questo è il bilancio dell'operazione di polizia derivata da una maxi inchiesta sul traffico di tecnologia di comunicazione dentro il carcere della Dozza di Bologna. Inchiesta nella quale sono finiti 44 detenuti attuali e sei persone in libertà.

Ieri sono finiti agli arresti in regime di custodia cautelare gli ultimi due soggetti considerati al vertice del 'giro' che nel tempo si era venuto a creare dentro e fuori le celle. Si tratta di un noto boss di una famiglia camorrista napoletana -già in carcere a Bologna e trasferito- e del suo fidato corriere, un quarantenne con piccoli precedenti che a sua volta si appoggiava a un dipendente esterno del carcere, finito agli arresti questa primavera.

Con questi due ultimi arresti ( il corriere è stato arrestato a Napoli con la collaborazione della locale squadra mobile) è emerso il quadro complessivo di una inchiesta difficile, che ha visto collaborare squadra Mobile e agenti della penitenziaria, oltre al Nir, il nucleo investigazioni regionale per i reati commessi dietro le sbarre. Inchieste difficile anche per via della fantasia dimostrata dai soggetti per nascondere i beni oggetto dell'attenzione.

Il video della rivolta del 2020 caricato su Youtube

Tutto è partito con il filmato della rivolta dentro il carcere, nel primo mese del lockdown a marzo 2020. Qualcuno caricò un video su Youtube dove, tra fogli di giornale che volavano, fumo e bastoni branditi, alcuni detenuti davano sfoggio di essersi impossessati di un piano del penitenziario. Siccome nemmeno gli agenti possono avere al loro interno dispositivi di comunicazione, il pm si muove e si inizia a indagare.

Ci vogliono mesi per ricostruire la rete di favori e controfavori che mappano un diffuso utilizzo di cellulari e di Sim attive sulla microcella che copre la casa circondariale. Decine di utenze, che non risultano né tra i (pochi) residenti della zona né tra agenti e impiegati.

Spulciando tra i numeri di telefono intercettati, alcuni nomi si riescono a isolare: sono quelli di un noto camorrista affiliato a un clan napoletano, che organizza il traffico, e di quello che poi si scoprirà essere il corriere di tutti i 'pacchi' con destinazione la Dozza. Entrambi i soggetti hanno circa quarantanni: il primo è ristretto nell'area alta sicurezza con diversi anni da scontare, il secondo è libero ma con diversi precedenti alle spalle.

La prima vera e propria operazione scatta quando si scopre di una consegna in corso tra questo corriere e un terzo soggetto, un dipendente del sopravvitto, che secondo le carte si occupava di trasportare i 'pacchi' dentro le mura del penitenziario, e che poi verrà arrestato in flagranza, tra aprile e maggio. Da qui in poi l'inchiesta subisce una accelerazione: ripetute ispezioni condotte in tandem tra la Mobile, gli agenti della penitenziaria e il personale del Nucleo investigativo regionale, portano a sequestri di una quindicina di telefoni e di decine e decine di Sim, a vario titolo coinvolte nell'inchiesta.

Cellulari nel bidet e nella tv

Le ispezioni, condotte a sorpresa, sono metodiche e non lasciano niente al caso. Alcuni dispositivi, che in molti casi non superano la grandezza di un pollice, sono stati trovati persino dentro le condutture di scarico dei bagni. In altri casi l'ingegno la faceva da padrone: è il caso di un dispositivo trovato dentro la scatola di un televisore i cui circuiti erano stati manomessi per fare da caricabatterie al device in questione. In un altro caso il cellulare era stato occultato dentro una confezione di zucchero, in tutto e per tutto sigillata come fosse nuova. Introvabili poi le sim, ancora più piccole e difficili da stanare.

Secondo quanto emerso dall'inchiesta, l'arrivo dei cellulari nel penitenziario non aveva permesso solo ai capi di comunicare con l'esterno. Era anche diventato un pericoloso mercato occulto, un business sul quale si consumavano violenze e si scambiavano favori. Secondo chi ha avuto modo di partecipare da vicino all'inchiesta, il valore di un cellulare da 50 euro dentro il carcere poteva arrivare fino a 1500 euro. Ne consegue che chi avesse accesso a una simile risorsa avrebbe avuto molto materiale, anche umano, sotto il suo controllo. Ora il mercato è stato minato dai sequestri e dagli arresti, ma rimane il tema di come contenere la pervasività di strumenti tecnologici nel campo della comunicazione nelle strutture detentive.

(fonte: BolognaToday)

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