"Motopesca non soccorse naufraghi prima della strage del 3 ottobre", 7 condanne
La pena più alta - 6 anni di reclusione - è stata inflitta al comandante dell'Aristeus, 4 anni agli altri componenti
I soccorsi ignorati prima della strage: secondo il giudice monocratico del tribunale di Agrigento, Alessandro Quattrocchi, i sette componenti dell’equipaggio del peschereccio “Aristeus", accusati di non essersi fermati a soccorrere l’imbarcazione, stracolma all'inverosimile con almeno 520 immigrati, che stava per colare a picco, sono colpevoli di omissione di soccorso.
La pena più alta - 6 anni di reclusione - è stata inflitta al comandante. Si tratta di Matteo Gancitano, 69 anni, di Mazara del Vallo, Quattro anni ciascuno ai componenti dell'equipaggio, quattro dei quali sono africani (tre tunisini e un senegalese) e due mazaresi, ovvero Alfonso Di Natale e Vittorio Cusumano. Nella strage del 3 ottobre del 2013 ci furono 366 morti accertati al largo di Lampedusa.
L’imbarcazione stava per affondare e l’equipaggio del peschereccio proseguì senza fermarsi a soccorrere i profughi né tantomeno avvisare le autorità. È questa l’ipotesi della Procura della Repubblica di Agrigento - l'inchiesta è stata condotta dal procuratore Luigi Patronaggio e dal pm Andrea Maggioni, l'accusa in giudizio è stata rappresentata dal pm Gloria Andreoli - che ha avuto adesso il vaglio del tribunale.
L’inchiesta fu avviata sulla base delle denunce dei sopravvissuti che hanno raccontato di avere visto passare un peschereccio che, nonostante i segnali di allarme, non si prestò a soccorrerli né furono avvisate le autorità marittime. Gli imputati sono stati già sentiti durante le indagini e hanno respinto le accuse sostenendo di non essersi fermati e di non avere allertato i soccorsi perché non avevano compreso che l’imbarcazione si trovava in difficoltà.
“Siamo partiti due giorni fa dal porto libico di Misurata, - hanno raccontato alcuni superstiti alla sciagura - su quel barcone eravamo in 500. Non riuscivamo nemmeno a muoverci. Durante la traversata tre pescherecci ci hanno visto ma non ci hanno soccorso”.
Oltre ai superstiti aveva confermato questa versione lo stesso scafista dell’imbarcazione - Khaled Bensalem, 36 anni, tunisino - arrestato pochi giorni dopo e condannato definitivamente a 18 anni di carcere per omicidio colposo plurimo, naufragio e favoreggiamento dell'immigrazione clandestina. A tradire Bensalem sarebbe stato il colore della pelle.
I sopravvissuti, quasi tutti eritrei e quindi molto più scuri di lui, interrogati dalla squadra mobile di Agrigento, lo avevano definito “white man”: uomo bianco. Il suo assistente, anch’esso tunisino, sarebbe morto nel naufragio. Incrociando le testimonianze dei superstiti e mostrando loro la foto di Bensalem è arrivata la conferma ai sospetti. Il tunisino era stato espulso come clandestino dopo lo sbarco dell'aprile precedente e aveva organizzato una nuova traversata rivelatasi una strage. La "carretta del mare" venne caricata all'inverosimile e lo scafista quando, a distanza di parecchie miglia dalla costa di Lampedusa, iniziò a imbarcare acqua, avrebbe dato fuoco a delle lenzuola per farsi notare provocando, invece, il panico e uno spostamento di massa che la fece ribaltare.
Bensalem si giustificò dicendo che, comunque, un peschereccio era passato davanti e aveva proseguito, nonostante i vistosi cenni di tutti i migranti. È stato questo il primo spunto per l’inchiesta. La procura, oltre a raccogliere le testimonianze, ha disposto una complessa consulenza tecnica per ricostruire il percorso seguito dal peschereccio attraverso il segnale del gps che è sempre tracciabile.