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Concetta Rizzo

Responsabile di Redazione

Omicidio-suicidio a Favara, quando la "frenesia" del web "stritola" la verità sostanziale dei fatti

Serve una riflessione, capacità di autocritica e, laddove ve ne sia, "mea culpa". Indispensabili, ma nessuno se ne ricorda mai, i rudimenti della professione giornalistica e, occupandosi di determinati settori, anche conoscenza (almeno a livello rudimentale) delle procedure investigative e penale. Basi di un "mestieraccio" che evitano di mettere alla gogna dell'opinione pubblica chi - forze dell'ordine o magistratura - si occupa di determinate, delicatissime, inchieste, ma anche sospettati ed indagati

Serve una riflessione, capacità di autocritica e, laddove ve ne sia, "mea culpa". 

Serve, oggi più che mai, rimarcare che uno degli obblighi inderogabili dei giornalisti è il rispetto della verità sostanziale dei fatti. Verità che non può assolutamente essere pregiudicata dalla folle corsa a chi arriva per primo a dare una notizia.

Servono anche, ma nessuno se ne ricorda mai, i rudimenti della professione giornalistica e, occupandosi di determinati settori, anche conoscenza (almeno a livello rudimentale) delle procedure investigative e penale. Basi di un "mestieraccio" che evitano di mettere alla gogna dell'opinione pubblica chi - forze dell'ordine o magistratura - si occupa di determinate, delicatissime, inchieste, ma anche sospettati ed indagati. Servono pure a livello generale, anch'essi appaiono più che mai indispensabili, comunicatori istituzionali: professionisti capaci di saper riferire come stanno "al momento" i fatti e, se necessario, mediare fra esigenze investigative e di libertà di stampa. Perché va riferito il dato assodato ed inconfutabile, discernendo da quello che invece ancora non può, e non deve essere, divulgato perché basato su ipotesi avanzate.

Ipotesi, ecco. Ipotesi che - nella folle corsa a chi arriva per primo nell'era dell'informazione sul web e dei passaggi sui social - si trasformano in verità assolute. Verità fasulle invece che non tengono nemmeno in conto che dietro le notizie vi sono sempre delle persone. Lo sono le vittime, i protagonisti, lo sono i rappresentanti istituzionali delle forze dell'ordine, i medici e i magistrati inquirenti. 

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"Il figlio si è ucciso trovando la mamma morta per cause naturali", "Il suo cuore non ha retto nel vedere il cadavere del figlio suicida". Queste alcune delle "voci", purtroppo trasformatesi anche in notizie, che si sono ricorse subito dopo il ritrovamento, mercoledì sera, dei cadaveri di madre e figlio in un'abitazione di Favara. La pensionata è stata uccisa, invece, dal figlio che s'è poi tolto la vita. Ma quando è stato accertato dai carabinieri - era abbondantemente superata la mezzanotte - la stampa aveva già raccontato altro, aveva raccontato di ipotesi (senza specificare che lo fossero) non ancora suffragate. 

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E lo aveva fatto perché nella frenesia di arrivare per primi non aveva tenuto in conto di una regola magistrale (che ingloba anche la conoscenza di procedure investigative e penali): i fatti erano ancora in corso d'accertamento. Così nella gogna mediatica ci sono finiti tutti: medici, carabinieri, pm e, inevitabilmente, anche gli stessi giornalisti.

Ciclicamente riecheggiano, a livello nazionale, le solite frasi: "E' un mestiere morto!", "Il giornalismo era quello di altri tempi!". E spesso, purtroppo, è anche vero. Specie se ci si lascia cogliere e stritolare dalla frenesia di arrivare per primi, se si dimenticano (o si sconoscono) le basilari regole deontologiche, di privacy, nonché i rudimenti di procedura penale e investigativa. Specie, appunto, se il "mestieraccio" viene lasciato in mano a non professionisti o aspiranti "biondini". 

L'omicidio-suicidio di Favara - facendo autocritica - è stata una brutta pagina di giornalismo. La verità sostanziale dei fatti è venuta alla luce con il nuovo giorno. Sarebbe bastato soltanto tenere presente che nessuno è portatore di verità assoluta, specie quando, appunto, ancora i fatti devono essere accertati e ricostruiti. Sembrava, ma non era. E non è responsabilità di medici (intervenuti dopo la mezzanotte), di carabinieri (che non toccano, né spostano i cadaveri senza autorizzazione della Procura), né di pm che si attengono a quello che, passo dopo passo, emerge. E allora? E' colpa (se di colpa si deve parlare!) della frenesia, della voglia di arrivare per primi a dare la notizia, dimenticando (o forse sconoscendo!) quelli che sono i dettami fondamentali di una professione che, purtroppo, ormai è davvero allo sbaraglio. Di una professione che non tiene più conto, sempre a livello generale e non dunque legato al "caso" specifico di Favara, che dietro i fatti che ciascuno di noi racconta ci sono persone e vite che possono essere pregiudicate.

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La soluzione? Non ce n'è altra che il richiamo al rispetto delle regole (per quanto possano apparire desuete!), lasciandosi dietro le spalle la frenesia. Perché - sia sul web, in tv o sulla carta stampa - la frenesia è soltanto una mina vagante che polverizza il diritto dei cittadini ad una informazione basata sulla verità sostanziale dei fatti.

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