"Messe a posto": quando Gerlandino Messina scriveva al boss di Castelvetrano per suddividere le aree del pizzo
Nel covo di via Stati Uniti a Favara, dove il boss empedoclino è stato arrestato nell'ottobre del 2010, vennero sequestrati anche una ventina di pizzini: in uno di questi, forse una brutta copia, un messaggio per Matteo Messina Denaro
E’ il 23 ottobre del 2010 quando Gerlandino Messina viene arrestato a Favara. E’ la fine dei latitanti agrigentini. Nel covo di via Stati Uniti, dove il boss empedoclino è stato trovato, sono stati sequestrati anche una ventina di pizzini. E in uno di questi, forse una brutta copia spedita al capomafia Matteo Messina Denaro che ha finito, ieri, la sua trentennale latitanza, l'empedoclino cerca accordi per la spartizione territoriale delle "messe a posto", suggerendo una sorta di suddivisione per aree della gestione del pizzo alle imprese. Il biglietto ritrovato dai carabinieri del reparto Operativo di Agrigento, all'epoca coordinati dal maggiore Salvo Leotta, oltre a documentare i rapporti tra i due capimafia, dimostra che Messina, contrariamente alla linea dettata dal suo predecessore alla guida delle cosche agrigentine, Giuseppe Falzone, grande nemico di Messina Denaro, cercava accordi con il padrino di Castelvetrano.
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L'arresto di Gerlandino Messina e il sequestro dei pizzini
Indossava una camicia a righe e dei jeans. In tasca, i carabinieri gli hanno trovato dei pizzini. Piccoli fogli di carta, scritti a macchina, ripiegati su se stessi. Da una prima lettura, ai carabinieri è saltato all’occhio il fatto - secondo quanto emerse all'epoca - che in quei pizzini c’erano i nomi delle ditte da contattare per la messa a posto. Erano alcune imprese che si occupavano del raddoppio della Statale 640, Agrigento-Caltanissetta, e della ditta che doveva realizzare il rigassificatore di Porto Empedocle. Fra questi, fra smentite e conferme da parte di investigatori ed inquirenti, potrebbe essercene - stando appunto alle indiscrezioni dell'epoca - anche uno indirizzato a Matteo Messina Denaro.
Non sarebbe stato, contrariamente a Giuseppe Falsone, un boss tecnologico. Gerlandino Messina, come Bernardo Provenzano, avrebbe usato, per impartire i comandi, una vecchia “Olivetti”. Ma c’era anche un pc e un paio di pendrive.