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Sabato, 20 Aprile 2024
Mafia

Il "capo dei capi" è morto, quando Totò Riina venne fermato ad Agrigento: aveva con sé una pistola

L'ombra di "u curtu" in provincia divenne nitida il 20 maggio del 1996 quando in via Papillon, in contrada Cannatello, venne arrestato - mentre guardava il film sulla strage di Capaci - Giovanni Brusca

E' stato il mafioso più famoso del mondo insieme ad Al Capone. La storia criminale di Totò Riina - "u curtu" - ha influenzato, inevitabilmente, anche le dinamiche mafiose dell'Agrigentino. Perché tutti i mafiosi, alla fine, tremavano davanti al corleonese. Il "capo dei capi" è morto stanotte alle 3,37 al reparto detenuti dell'ospedale di Parma. Era in coma da alcuni giorni dopo due interventi chirurgici. Proprio ieri aveva compiuto 87 anni.

Ore 3,37, è morto Totò Riina: era ancora il capo di Cosa Nostra 

Arrestato il 15 gennaio del 1993 dopo 24 anni di latitanza, Riina era ancora considerato dagli inquirenti il capo indiscusso di Cosa Nostra. Il capomafia stava scontando 26 condanne all'ergastolo per decine di omicidi e stragi. A luglio il tribunale di sorveglianza di Bologna aveva rigettato la richiesta di differimento della pena avanzata dai legali di Riina, che era quindi rimasto nel reparto detenuti dell'ospedale di Parma in regime di 41 bis. I giudici hanno ritenuto che il boss 87enne potesse essere curato nel migliore dei modi nell'ospedale emiliano. 

Era dicembre del 1963 quando Totò Riina viene fermato da una pattuglia dei carabinieri in provincia di Agrigento. Aveva una carta d'identità rubata e una pistola. Contro la mafia gridò - era il 9 maggio del 1993 - anche papa Giovanni Paolo II. Ai piedi della valle dei Templi, Wojtyła lanciò quello che è rimasto come l'anatema contro Cosa Nostra: "Lo dico ai responsabili: convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio".

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L'ombra di Totò Riina ad Agrigento divenne nitida il 20 maggio del 1996 quando in via Papillon, in contrada Cannatello, venne arrestato - mentre guardava il film sulla strage di Capaci - Giovanni Brusca, fiancheggiatore dei corleonesi prima e al comando dopo l'arresto di Totò Riina e di Leoluca Bagarella. Dopo l'arresto, Brusca tentò inizialmente di depistare gli inquirenti, per poi "pentirsi" nel 2000 e confessare numerosi omicidi. Inizialmente condannato all'ergastolo, dopo il suo pentimento la pena gli viene ridotta a 19 anni e 11 mesi di reclusione.

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L'ombra dei corleonesi sull'Agrigentino ha influenzato anche gli assetti mafiosi. Fino al novembre del 2006, prima del suo arresto, il racalmutese Maurizio Di Gati era considerato il numero uno di Cosa Nostra. L'elezione ufficiale a "capo" non ci fu mai perché - il 14 luglio del 2002 - durante una riunione tra famiglie, a Santa Margherita Belice, per decidere il capoprovincia di Cosa Nostra la polizia interruppe l'incontro con un blitz. Di Gati che era sponsorizzato da Nino Giuffrè, allora, riuscì a scappare. Bernardo Provenzano - "Binnu" - invece preferiva Giuseppe Falsone di Campobello di Licata.

Falsone si appropriò della “poltrona” di “capo” firmando un omicidio che per crudeltà è pari a quello del boss italo-americano Albert Anastasia finito a colpi di fucile mentre aveva la faccia insaponata dalla schiuma da barba: Carmelo Milioti di Favara era, infatti, seduto dal barbiere quando arrivarono i killer che lo freddarono. Fu il campanello di allarme che indusse l’allora boss Maurizio Di Gati a cedere lo “scettro”. Giuseppe Falsone è uno che alla mafia tradizionale preferisce quella fatta di numeri, meglio ancora se a 6 zeri. Falsone, secondo il racconto del pentito Maurizio Di Gati di Racalmuto, si sarebbe “più volte dimostrato interessato al business della grande distribuzione”. Un business che ha sempre fatto “gola” alle cosche. L’interesse del campobellese per le catene di supermercati sarebbe stato concreto, tanto da assicurare  protezione a Giuseppe Capizzi (il mandante dell’omicidio del maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli). Capizzi, titolare di un supermercato a Ribera, non soltanto non avrebbe pagato la fornitura di merce presa, per 297 mila euro, da Giuseppe Grigoli di Castelvetrano, ma avrebbe anzi deciso di imporre il pizzo ai 7 supermercati Despar di Grigoli. Matteo Messina Denaro, il super latitante trapanese, sarebbe a questo punto intervenuto spedendo dei “pizzini” al capo dei capi Bernardo Provenzano. “Pizzini”, in cui Falsone è indicato con il numero “28”, che sono stati poi sequestrati nel covo di Montagna dei Cavalli laddove “Binnu” venne arrestato l’11 aprile del 2006.

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Chiaro, dunque, per investigatori ed inquirenti, il collegamento a doppio nodo fra Cosa Nostra Palermitana, Agrigentina e Trapanese. L'ombra di Totò Riina tona plateale nell'Agrigentino quando il 23 ottobre del 2010, a Favara, viene arrestato il boss - latitante d 11 anni - Gerlandino Messina di Porto Empedocle. Allora, nel covo - un appartamento di via Stati Uniti - i carabinieri rinvennero sul comodino della stanza da letto di colui che era forse diventato il numero uno di Cosa Nostra Agrigentina, la biografia di Totò Riina. In tasca, inoltre, l'empedoclino aveva quattro pizzini, uno dei quali indirizzato al “mammasantissima” Matteo Messina Denaro. 

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