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Cronaca

Effetto Covid: le regioni in cui la speranza di vita è calata di più

Secondo il report dell'Istat sugli indicatori demografici, nel 2020 la popolazione è scesa di 384mila abitanti. Nascite al minimo, record di decessi e con l'aumento del rischio di mortalità abbiamo perso 14 mesi di "sopravvivenza"

Un'Italia che si svuota, con una popolazione che al 1° gennaio 2021 ammonta a 59 milioni 259mila abitanti, ben 384mila unità in meno rispetto allo scorso anno. E poi nascite al minimo e decessi record, con la speranza di vita che scende ad 82 anni (1,2 anni in meno rispetto al 2019). 

Gli effetti del Covid sull'Italia

A delineare il quadro demografico italiano è il report dell'Istat, una fotografia largamente influenzata dall'epidemia di coronavirus con cui lottiamo da oltre un anno. Nel 2020 la pandemia da Covid-19 ha prodotto effetti non soltanto, per quanto prevalentemente, sulla mortalità ma anche sulla mobilità residenziale interna e con i Paesi esteri, arrivando a incidere persino sui comportamenti riproduttivi (nell’ultimo mese dell’anno) e nuziali. Di conseguenza, ne scaturisce una condizione squilibrata dal punto di vista demografico.

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Alla luce di dati molto consolidati che coprono tutto il 2020 ma che per il momento sono da considerarsi provvisori, le nascite risultano pari a 404mila mentre i decessi raggiungono il livello eccezionale di 746mila. Ne consegue una dinamica naturale (nascite-decessi) negativa nella misura di 342mila unità.

Gli effetti del lockdown hanno poi determinato inevitabili ripercussioni sul versante dei trasferimenti di residenza. Le iscrizioni dall’estero sono state 221mila e le cancellazioni 142mila. Ne deriva un saldo migratorio con l’estero positivo per 79mila unità, il valore più basso degli anni 2000 e in grado di compensare solo in parte l’effetto negativo del pesante bilancio della dinamica naturale.

Per quanto riguarda la mobilità interna si rileva una riduzione del volume complessivo di circa il 12%: sono 1 milione 308mila i trasferimenti registrati tra i Comuni italiani nel 2020 contro 1 milione 485mila dell’anno precedente. Infine, le ordinarie operazioni di allineamento e revisione delle anagrafi (saldo per altri motivi) comportano un saldo negativo per ulteriori 121mila unità.

Il riflesso di tali andamenti comporta un’ulteriore riduzione della popolazione residente, scesa al 1° gennaio 2021 a 59 milioni 258mila. Ininterrottamente in calo da 7 anni consecutivi, e specificamente dal 2014 quando raggiunse la cifra record di 60,3 milioni di residenti, l’ammontare della popolazione registra nel 2020 una riduzione di 384mila unità sull’anno precedente (-6,4 per mille residenti).

Popolazione in calo in quasi tutte le regioni

Come riporta l'Istituto di Statistica, escluso il Trentino-Alto Adige, dove si registra una variazione annuale della popolazione pari a +0,4 per mille, tutte le regioni sono interessate da un decremento demografico. Il fenomeno colpisce maggiormente il Mezzogiorno (-7 per mille) rispetto al Centro (-6,4) e al Nord (-6,1). Molise (-13,2) e Basilicata (-10,3) sono le regioni più colpite; tra quelle del Nord spiccano Piemonte (-8,8), Valle d’Aosta (-9,1) e soprattutto Liguria (-9,9).

Scendendo di un livello nell’analisi territoriale, la provincia di Isernia è quella che evidenzia la situazione maggiormente critica, per via di un tasso di variazione che in un anno le sottrae circa l’1,5% della popolazione. Sono comunque numerose, e concentrate nel Nord-ovest, le province che nel 2020 perdono almeno l’1% della popolazione. In particolare, le province di Vercelli, Asti, Alessandria e Biella in Piemonte; le province di Savona e Genova in Liguria, quelle di Pavia e Cremona in Lombardia.

Persi in media 14 mesi di sopravvivenza: le regioni dove è calata la speranza di vita

Un altro effetto dell'epidemia e dell'aumento del rischio di mortalità, soprattutto in alcune aree e per alcune fasce d’età, la sopravvivenza media nel corso del 2020 appare in decisa contrazione. La speranza di vita alla nascita, senza distinzione di genere, scende a 82 anni, ben 1,2 anni sotto il livello del 2019. Per osservare un valore analogo occorre risalire al 2012. Gli uomini sono più penalizzati: la loro speranza di vita alla nascita scende a 79,7 anni, ossia 1,4 anni in meno dell’anno precedente, mentre per le donne si attesta a 84,4 anni, un anno di sopravvivenza in meno. A 65 anni la speranza di vita scende a 19,9 anni (18,2 per gli uomini, 21,6 per le donne). La variazione annuale è sostanzialmente uguale a quella riscontrata nella speranza di vita alla nascita ma ha un impatto relativo più importante, stante l’esiguità della vita media residua sul quale un individuo può contare al 65° compleanno.

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Tutte le regioni, nessuna esclusa, subiscono un abbassamento dei livelli di sopravvivenza. Tra gli uomini la riduzione della speranza di vita alla nascita varia da un minimo di 0,5 anni (vale a dire 6 mesi di vita media in meno) riscontrato in Calabria, a un massimo di ben 2,6 anni in Lombardia.

Le regioni del Centro-sud registrano perdite inferiori, poiché meno colpite dagli effetti della pandemia ma comunque importanti. In Abruzzo, Puglia e Campania, la riduzione di sopravvivenza per gli uomini è di oltre un anno rispetto al 2019. Ma è soprattutto il Nord a pagare il prezzo più alto: oltre che nella già citata Lombardia, gli uomini registrano riduzioni rilevanti anche in Piemonte (-1,7 anni), Valle d’Aosta (-1,7), Liguria (-1,6), Trentino-Alto Adige (-1,6) ed Emilia-Romagna (-1,5).

Lo schema si ripete tra le donne, anche se a un livello differente. Nelle regioni del Centro-sud si riscontrano variazioni più contenute, minime in Calabria e Basilicata (-0,3 anni) così come nel Lazio e in Campania (-0,4). Si tratta comunque di perdite importanti, dell’ordine dei 3-5 mesi di speranza di vita in meno, ma di certo non paragonabili ai 2 anni pieni persi dalle donne in Lombardia o ai 2,3 anni persi in Valle d’Aosta, dove si riscontra la condizione più critica.

Su base provinciale la correlazione tra la mappa della diffusione della pandemia e quella della sopravvivenza persa in base ad anni vissuti è ancora più netta che su scala regionale. Emerge la specificità di alcune aree del Paese, più colpite dalla pandemia nella sua fase di esplosione iniziale. Tra queste, la provincia di Bergamo, dove per gli uomini la speranza di vita alla nascita è più bassa di 4,3 anni rispetto al 2019, e le province di Cremona e Lodi, entrambe con 4,5 anni in meno. In queste tre specifiche realtà sono ingenti anche le variazioni riscontrate tra le donne: -3,2 anni per Bergamo e -2,9 anni per Cremona e Lodi. Dati, questi ultimi, che arretrano le lancette del tempo al 2003.

Altra realtà fuori dai confini lombardi, ma strettamente contigua, è quella della provincia di Piacenza, dove si registrano riduzioni della speranza di vita alla nascita nella misura di 3,8 e 2,8 anni, rispettivamente per uomini e donne.

Oltre a questi casi più eclatanti, il quadro provinciale presenta molte situazioni nelle quali la perdita di sopravvivenza arriva a superare i due anni. Per gli uomini si tratta delle province di Vercelli, Alessandria e Biella in Piemonte, delle restanti province lombarde ad eccezione di Monza (che si ferma a -1,7 anni) e delle province di Pordenone, Parma e Pesaro-Urbino. Nel Mezzogiorno le sole province con un calo della speranza di vita superiore ai due anni sono Foggia ed Enna. Per le donne, data la relativamente minore aggressività della pandemia, sono molte meno le province con una simile portata di riduzione. Tra queste, oltre a quelle già menzionate, rientrano quelle lombarde di Brescia e Lodi.

La pandemia ha causato 99mila decessi in più

Nel corso del 2020 sono stati registrati 75.891 decessi attribuibili in via diretta a Covid-19, secondo il Sistema di Sorveglianza Nazionale integrata dell'Istituto Superiore di Sanità. "Tuttavia, come già evidenziato, l'incremento assoluto dei decessi per tutte le cause di morte sull'anno precedente è stato pari a +112 mila - si legge nel report dell'Istat sugli indicatori demografici 2020 - Così, se da un lato è possibile ipotizzare che parte della mortalità da Covid-19 possa essere sfuggita alle rilevazioni, dall'altro è anche concreta l'ipotesi che una parte ulteriore di decessi sia stata causata da altre patologie letali che, nell'ambito di un Sistema sanitario nazionale in piena emergenza, non è stato possibile trattare nei tempi e nei modi richiesti".

In attesa degli approfondimenti sui dati dettagliati per causa di morte, evidenzia l'Istat, è possibile effettuare alcune valutazioni di massima: "se, ad esempio, nel corso del 2020 si fossero riscontrati i medesimi rischi di morte osservati nel 2019 (distintamente per sesso, età e provincia di residenza e applicati ai soggetti esposti a rischio di decesso) i morti sarebbero stati 647mila, ossia soltanto 13mila in più rispetto all'anno precedente, invece dei 112 mila registrati. Ne consegue che la mortalità indotta direttamente/indirettamente da Covid-19 ammonta a 99mila decessi, un livello che può considerarsi come limite minimo. Infatti, nei primi due mesi del 2020, in una fase antecedente alla diffusione del virus, i decessi sono stati 6.877 in meno rispetto agli stessi mesi del 2019. È dunque lecito ipotizzare che senza la pandemia i rischi di morte sarebbero stati inferiori e non, come qui è ipotizzato ai fini del calcolo, precisamente eguali".

Più morti al Nord e tra uomini e anziani

Delle 99mila unità stimate come eccesso di mortalità 53mila sono uomini e 46mila donne, a riprova che la pandemia ha prevalentemente colpito il genere maschile.

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In base all’età le perdite umane in eccesso si concentrano tutte dopo i 50 anni e risultano maggiori all’avanzare dell’età. Fino a sotto i 50 anni, infatti, l’ipotesi di rischi di morte costanti nel 2020 sui livelli espressi nel 2019 produce un numero di decessi atteso in ogni caso superiore, di circa 1.500 unità, a quello realmente osservato nonostante la pandemia. Ciò avvalora non solo la tesi che la letalità del virus sia di fatto irrilevante nelle classi di età più giovani, ma anche quella che senza la pandemia il 2020 avrebbe potuto essere un buon anno per le prospettive di sopravvivenza nel Paese.
Si registra invece un eccesso di mortalità nelle età più fragili, che per gli uomini interessa soprattutto le classi 80-84 e 85-89 anni (circa 22mila decessi in più) mentre per le donne, in ragione di una presenza più numerosa, l’eccesso prevale nella classe 90-94 anni (oltre 15mila decessi in più).

A livello nazionale l’eccesso di mortalità rappresenta il 13% della mortalità riscontrata nell’anno, ma la situazione è molto varia sul piano territoriale. Nel Nord rappresenta il 19%, nel Centro l’8% e nel Mezzogiorno il 7% del totale. A livello regionale i valori variano dal 4% di Calabria e Basilicata al 25% (un decesso su quattro) della Lombardia. In quest’ultima regione, peraltro, emergono le aree più colpite. Nella provincia di Bergamo l’eccesso di mortalità costituisce il 36% del totale, in quella di Cremona il 35%, in quella di Lodi il 34%.

Nascite in calo continuo: si va verso un figlio per coppia

Il 2020 segna l’ennesima riduzione delle nascite che sembra non aver fine. Nel volgere di 12 anni si è passati da un picco relativo di 577mila nati agli attuali 404mila, ben il 30% in meno. Alla contrazione dei progetti riproduttivi, con un tasso di fecondità totale sceso lo scorso anno a 1,24 figli per donna da 1,27 del 2019 (era 1,40 nel 2008), si accompagnano anche deficit dimensionali e strutturali della popolazione femminile in età feconda, che si riduce nel tempo e ha un’età media in aumento.

Se si fosse procreato con la stessa intensità e con lo stesso calendario di fecondità del 2019, quando si registrarono 420mila nascite, nel 2020 se ne sarebbero osservate circa 413mila, anziché 404mila5. Dunque, il solo effetto strutturale legato al processo di invecchiamento della popolazione femminile in età feconda porta una riduzione, a parità di condizioni, di almeno 7mila nascite. L’ulteriore calo di 9 mila sul 2019 è invece frutto della reale contrazione dei livelli riproduttivi espressi.

Su queste dinamiche, che da anni vanno ripetendosi costituendo la questione di punta della demografia nazionale, gli effetti della pandemia hanno potuto manifestarsi, nel caso, soltanto con riferimento al mese di dicembre 2020. Infatti, occorre considerare che l’impatto psicologico di Covid-19, così come le restrizioni adottate, hanno avuto un impatto sulle scelte riproduttive soltanto a partire da marzo.

Ciò è quanto lascia supporre anche l’andamento delle nascite per singolo mese del 2020, messo a confronto con il 2019. In particolare, a eccezione di febbraio, i nati mensili nel 2020 sono sempre sotto quelli del 2019, a conferma del prosieguo della tendenziale riduzione avviata negli ultimi anni.

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La riduzione della natalità interessa tutte le aree del Paese, da Nord a Sud, salvo rare e non significative eccezioni. Sul piano regionale le nascite, che su scala nazionale risultano inferiori del 3,8% sul 2019, si riducono dell’11,2% in Molise, del 7,8% in Valle d’Aosta, del 6,9% in Sardegna. Tra le province, a riprova di un quadro generale piuttosto critico, sono soltanto 11 (su 107) quelle in cui si rileva un incremento delle nascite: Verbano-Cusio Ossola, Imperia, Belluno, Gorizia, Trieste, Grosseto, Fermo, Caserta, Brindisi, Vibo Valentia e Sud Sardegna. La fecondità si mantiene più elevata nel Nord del Paese, con 1,27 figli per donna ma in calo rispetto a 1,31 del 2019 (e a 1,44 del 2008). Nel Mezzogiorno scende da 1,26 a 1,23 (1,34 nel 2008) mentre al Centro passa da 1,19 a 1,17 (1,39 nel 2008).

La regione più prolifica è il Trentino-Alto Adige con 1,52 figli per donna, in calo da 1,57 del 2019. Sotto il livello di 1,2 figli per donna si trovano soltanto regioni del Centro-sud. Una situazione decisamente sfavorevole è nelle aree a maggiore declino demografico, che, al contrario, avrebbero grande necessità di invertire le tendenze in corso. In Umbria, Abruzzo, Molise e Basilicata si è molto più prossimi al livello di rimpiazzo della sola madre (cioè a un figlio per donna) che non, idealmente, a quello della coppia di genitori (due figli). In Sardegna (0,95 figli per donna), per il secondo anno consecutivo non si coglie nemmeno l’obiettivo minimo di rimpiazzare almeno un genitore.

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In questo panorama, tutt’altro che favorevole, l’unica realtà territoriale che si differenzia dalle altre è la provincia di Bolzano che, con 1,69 figli per donna, detiene il primato della più alta prolificità, seguita ad ampia distanza dalle province di Gorizia (1,42), Palermo e Catania (1,38), Ragusa e Cuneo (1,36) e Trento (1,35). Nel complesso sono 62 (su 107) le province con un livello di fecondità sotto la media nazionale (1,24), segno di una evidente asimmetria a sinistra della distribuzione, con quattro delle cinque province sarde sotto il livello di un figlio per donna e la quinta, Nuoro, che si ferma a 1,01.

Nel 2020 più di 5 milioni di stranieri residenti in Italia

L'ammontare della popolazione straniera residente tende a stabilizzarsi. In base alle stime, al 1° gennaio 2021 gli stranieri residenti nel Paese ammontano a 5 milioni 36mila, in calo di 4mila unità (-0,8 per mille) rispetto a un anno prima. Lo attesta l'Istat nel report sugli indicatori demografici 2020. Nel conteggio concorrono a saldo 128mila unità in più per effetto delle migrazioni con l'estero (di cui 174mila iscrizioni e 46mila cancellazioni), 51mila unità in più per effetto della dinamica naturale (60mila nati stranieri contro 9mila decessi), 84mila unità in meno per effetto delle revisioni anagrafiche e circa 100mila unità in meno per acquisizione della cittadinanza italiana.

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Anche se si tratta di valutazioni preliminari, che i dati definitivi potrebbero in parte rettificare, l'elemento di novità degli ultimi anni "è la tendenza alla stabilizzazione della popolazione straniera residente", dice l'Istat. Peraltro, in assenza di un evento straordinario come la pandemia, una riduzione della popolazione straniera si era già verificata nel biennio 2015-2016, cui aveva fatto seguito una ripresa nel periodo 2017-2019, tutto sommato modesta, se comparata allo sviluppo registrato nei primi 10 anni del 2000. Va precisato che, nel 2020, gli aspetti di carattere giuridico-amministrativo, oltre a quelli squisitamente demografici, "rivestono un peso importante nel bilancio complessivo della popolazione straniera. Sia le operazioni di revisione anagrafica, sia le acquisizioni della cittadinanza italiana hanno infatti un volume complessivo tale da ribaltare quello delle dinamiche demografiche 'pure' (naturale e migratoria) che per la popolazione straniera rimangono largamente positive. In relazione a tale ultimo punto, l'analisi territoriale del bilancio demografico della popolazione straniera può essere confusa da effetti di natura giuridico-amministrativa".

La maggiore riduzione della popolazione straniera si riscontra nel Centro (-8,6 per mille) soprattutto nel Lazio (-11,3 per mille), proprio per una maggiore efficacia di tali effetti. Viceversa, nel Nord, dove pure gli aspetti giuridico-amministrativi sono importanti, la popolazione straniera cresce del 2,4 per mille mentre nel Mezzogiorno si registra una modesta flessione pari allo 0,3 per mille. Un ricambio demografico che resta negli anni debole determina effetti soprattutto sulla popolazione di cittadinanza italiana, il cui ammontare continua a decrescere di anno in anno. Dal massimo storico di circa 55,9 milioni di residenti raggiunto nel 2009, ha successivamente avuto luogo un progressivo declino che ha portato alla perdita di 1,6 milioni di individui. Al 1° gennaio 2021 gli italiani residenti sono 54 milioni 222mila, con una riduzione di circa 380mila unità (-7,0 per mille) sull'anno precedente.

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