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Trinacria selvaggia

Trinacria selvaggia

A cura di Antonio Vanadia

"Prigioniero del mare" nel faro di Capo Rossello

Ricordo da bambino il mio sguardo era rivolto sempre verso l'alto, ero fortemente attratto da quel candido edificio che si stagliava sul cielo di cobalto

Un faro abbandonato con l’intonaco scrostato e le ringhiere intaccate dalla ruggine, gli scalini dai bordi sbrecciati, i mattoni sconnessi e le cerniere delle finestre cigolanti. Un faro che sorge su un promontorio battuto dalle tempeste in una fredda e solitaria isola dell’Atlantico settentrionale o in un arido e remoto scoglio dell’Egeo o del Canale di Sicilia oppure  alla fine del mondo dove si mescolano le acque dell’Atlantico e del Pacifico.

Un faro tormentato dal vento sempre sfiorato dalle ali degli albatri e dei gabbiani, testimone muto di scorrerie, traffici, battaglie e naufragi, un faro, quasi uno sciamano pietrificato che congiunge e fa da tramite fra cielo, terra e mare.

Ricordo che quando da bambino mi trovavo sulla spiaggia di Capo Rossello il mio sguardo era rivolto sempre verso l’alto, verso il faro, ero fortemente attratto da quel candido edificio che si stagliava sul cielo di cobalto; quasi ogni giorno davo l’assalto all’aspra montagna di azzurra argilla e roccia dorata, calzavo dei sandali, mi arrampicavo e tormentato dalle spine dei cardi salivo, spesso scivolavo nella polvere graffiandomi a sangue le ginocchia, mi fermavo ogni tanto per riposarmi sedendo  su un masso di calcarinite arancione, mi piaceva sfogliare le pagine di pietra di quella roccia che mi parlava da un tempo remoto, con le dita sfioravo i bordi affilati delle conchiglie fossili, i rami pietrificati delle madrepore, le geometrie perfette dei dermascheletri.

E poi, tornavo a salire tormentato dal meriggio infuocato e a tratti ristorato dall’argentino e sonoro "ridere" dei gabbiani reali che come fantasmi ebbri di spazio roteavano su me. Poi finalmente giungevo in cima dinanzi alla meta agognata, dinanzi al faro, che circondato da una bassa e folta macchia, svettava diritto quale sicura scolta sul mare africano.

Vivere in un faro abbandonato che sorge in un luogo remoto significa essere prigionieri del mare per scelta, per ascoltare una voce interiore, per sedare un terremoto nell’anima, per sfuggire il mondo, per incontrare se stessi e Dio.

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