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“Mi tolse le mutandine…”, donne coraggio nella Girgenti di cento anni fa

In provincia di Agrigento, già all'inizio del secolo scorso, non mancarono le ragazze, spesso anche minorenni, che senza indugio, dopo aver subito violenza, sfidando anche le minacce di morte, si presentavano ai regi Carabinieri

Il 27 dicembre 1965, Franca Viola, alcamese, rifiutò le nozze riparatrici dopo essere stata rapita e violentata dal suo seduttore e denunciò coraggiosamente il reato, facendo condannare il responsabile. Quest’episodio di cronaca ebbe una risonanza straordinaria in tutta Italia perché venne indicato come l’inizio della riscossa delle donne siciliane, che sfidando l’opinione comune decidevano finalmente  di non tacere e di affrontare anche in pubblico dibattimento in un Tribunale tutti i rischi connessi al caso.

In verità ben prima di quell’episodio, e già all’inizio del secolo scorso, anche in provincia di Agrigento non mancarono le ragazze, spesso anche minorenni, che senza indugio, dopo aver subito violenza, sfidando anche le minacce di morte, si presentavano ai regi Carabinieri per raccontare con grande coraggio anche i più raccapriccianti dettagli della violenza subita.

In queste colonne vogliamo indicare tre esempi di  giovani agrigentine che hanno subito violenza sessuale e che hanno coraggiosamente denunciato alla giustizia i responsabili.

Il 2 luglio del 1921 si presentò nella caserma di Lampedusa la diciottenne Rosalia raccontando che il 13 ottobre dell’anno precedente verso le ore 16, Salvatore, un uomo di 60 anni che conosceva sin da bambina, si era presentato a casa sua. Disse che cercava la signora Maria, la  madre di Rosalia, e quando si accertò che la madre non i trovava a Lampedusa e che la ragazza era sola in casa, tornò sui suoi passi e sbarrò dall’interno la porta d’ingresso. Poi, raccontò la sventurata Rosalia ai giudici, “accostatosi a me e prendendomi per un braccio, mi trascinò verso il letto. Gli dissi di lasciarmi andare perché mia madre se avesse saputo qualcosa mi avrebbe ammazzata, ma egli insistette, dicendomi che lui avrebbe pensato a me. Presami per la vita, mi gettò sul letto, cercavo di svincolarmi e gridavo, ma sopraffatta e vinta dalla forza di lui, e intimidita dalla minaccia che mi avrebbe ammazzata se avessi parlato, non potei opporre una maggiore resistenza ed egli si congiunse a me carnalmente“. Poche settimane dopo, Rosalia scoprì di essere incinta, ma per paura tenne nascosto a tutti il suo stato, anche a sua madre. Il parto avvenne  alla fine di giugno del 1921. A quel punto non poté che rivelare tutto alla madre, che fu molto più comprensiva di quanto Rosalia si aspettasse. La signora Maria denunciò quindi la violenza subita dalla figlia ai Carabinieri di Lampedusa che fermarono il presunto aggressore. Questi si dichiarava innocente, pur ammendo di essere stato a casa della vittima. Il processo venne celebrato a Girgenti il giorno 11 aprile 1923. Ma i giudici condannarono l’imputato ad un anno di reclusione per violazione di domicilio, mentre non trovarono prove sufficienti per condannarlo per violenza carnale (Archivio di Stato di Agrigento, inv.9 fasc.58 sentenza n. 122).

Di alcuni anni prima è il processo contro un padre - un contadino di 54 anni di Canicattì -  che ha tentato ripetutamente  di abusare della propria figlia, Carolina, di diciassette anni. La ragazza raccontò ai Carabinieri che un giorno dell’estate del 1914, “rimase sola in casa col padre, essendo la madre rimasta in campagna. Il genitore, al momento di andare a letto, costrinse la figlia a coricarsi nello stesso letto. La giovane in un primo tempo oppose un rifiuto, ma poi dovette cedere alle costrizioni del padre che la minacciava di scacciarla di casa“. E così la giovane cedette, subendo le pesanti attenzioni del padre. Riuscì per un momento a liberarsi dal suo abbraccio, ma era sola e indifesa. Piangendo, scongiurava  il padre di avere pietà di lei, ma senza esito. La ragazza descrisse ai giudici i disgustosi  atti di libidine violenta che dovette sopportare. Ma concluse la sua deposizione affermando che il padre non si spinse “ad atti più gravi”,cioè non la violentò.  Forse per la vergogna preferì non dover ammettere di essere stata violentata dal genitore. Il giorno dopo la ragazza raccontò ogni cosa alla madre e alla sorella. Seguirono naturalmente giorni di grave tensione tra quelle mura domestiche e un giorno continuando a discutere del fatto, padre e madre vennero alle mani e il primo afferrò una falce e inseguì la moglie e le figlie, che però miracolosamente riuscirono a salvarsi e a raggiungere la stazione dei Carabinieri dove raccontarono ogni cosa. Il 19 marzo 1915 i giudici di Girgenti condannarono il padre-padrone a tre anni sei mesi e 16 giorni di reclusione (Archivio di Stato di Agrigento, inv 9, fasc.48, sentenza n. 170).

Con il carcere pagò anche il balordo diciannovenne Stefano, di Ioppolo, per avere violentato l’innocente quattordicenne Carmela. La ragazza si era recata nella stalla per sistemare la paglia, come faceva ogni giorno. Improvvisamente sentì la porta chiudersi e nella penombra vide avanzare un giovane con una rivoltella che le ordinava di non gridare, mentre si avvicivava spavaldamente verso di lei. “Allora – raccontò la giovane – quando fu vicino a me mi spinse e caddi sulla paglia; quindi mi tolse le mutandine e si congiunse carnalmente con me, non una sola volta ma ripetute altre volte, trattenendomi dentro la pagliera sin quasi all’Ave Maria”. Lasciò la ragazza solo quando comprese che poteva essere scoperto dai parenti che da alcune ore si erano messe a cercarla e li vide avvicinarsi alla pagliera. Prima di abbandonare Carmela, il giovinastro le promise che se non avesse parlato, al ritorno dal servizio militare l’avrebbe sposata. La poveretta non ebbe il coraggio di tornare subito a casa e si recò invece dalla nonna a cui raccontò la disgrazia che le era capitata e fece il nome del suo aggressore che conosceva trattandosi di un compaesano. La nonna convinse Carmela a raccontare  ai genitori e ai fratelli come era avvenuta la violenza. Dopo una rapida discussione in famiglia,  si rivolsero alla giustizia, non prendendo neppure in considerazione le nozze riparatrici. I medici appurarono che la ragazza aveva subito violenza carnale e il tribunale il 27 aprile 1923 condannò l’imputato a due anni e sei mesi di reclusione (Archivio di stato di Agrigento, inv 9 fasc.58,sentenza n146).
 
Elio Di Bella (Agrigentoierieoggi)

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