rotate-mobile

«Ti viu a lu strittu di Sant'Anna», deliquenti per disperazione

All'incredulo presidente del Tribunale Filippo Diaz, Gerlanda spiegò che non era pazza, né delinquente, ma disperata e ammise - come ci dice la sentenza - che "era vero aveva rotto lei quei fanali, ma l'aveva fatto perché ammalata e sperava con questo atto essere dopo che fosse stata arrestata, rimessa ad un ospedale ". Il vecchio giudice ne aveva viste tante il quella città di matti, ma una cosa come questa…Possibile che una onesta donna fosse costretta a farsi chiudere in galera per farsi curare ?

Ti viu a lu strittu di Sant’Anna”. La povera Gerlanda Piccione se lo sentiva ripetere quasi ogni giorno, da amici e nemici, quando camminava barcollando, stretta nel suo abitino nero, nel  quartiere di via Garibaldi. Aveva  37 anni, ma ne dimostrava cinquanta almeno, tanto era smagrita. Lo stretto di Sant’Anna lo conosceva bene lei, come tutti, a Girgenti (oggi Agrigento). Era di fronte alla chiesa di Sant’Anna, accanto al Tribunale. Era quel punto in cui la via Atenea improvvisamente si stringeva talmente che solo una persona per volta da lì poteva passare. E una volta ch’eri passato per quel varco, non potevi sfuggire alla schiera di mendicanti di ogni genere, sesso, condizione, ed età che si sistemavano proprio lì perché naturalmente potevano meglio controllare il passaggio di ogni cristiano che dalla via Atenea andava alla “chiazza piccola” della città, cioè al largo dei Tribunali.

Gerlanda povera era davvero, ma allo stretto di Sant’Anna, giurava, non l’avrebbero mai vista, finché San Calogero le dava la salute e poteva andare a cucire a casa di sua zia Concetta, o poteva andare a raccogliere le olive e le mandorle nei feudi di Cannatello con le altre donne del Rabato. Ma da qualche mese Gerlanda le forze non le sentiva più. Una febbre dopo l’altra, un malanno sconosciuto, se la stava mangiando. Di uscire per andare a lavorare non aveva proprio più la forza. Gli ultimi soldi se ne erano andati in medicine e a dire il vero pure perché chiamo la maga per una controfattura, per levare il malocchio. Ma neppure tutte le arti della maga Serafina ci avevano potuto contro quella febbre.

Allora s’era fatta forza ed era andata all’ospedale vecchio nella via Atenea a due passi da Porta di Ponte per farsi ricoverare. Ma posto le avevano detto che per lei non ce n’era, anche perché poi tanto grave al dottore non pareva che fosse. E Gerlanda un po’ meglio veramente stava giusto quel giorno, perché  febbre in effetti non ne aveva. Ma fame sì e tanta ed era certa che, una volta ricoverata, le avrebbero dato per qualche giorno pure qualche brodo e un poco di latte col pane. Adesso se ne tornava invece sui suoi passi e pensava a che rimedio trovare, dato che di lavorare ancora non poteva, di prestiti nessuno gliene faceva più e di andare a chiedere l’elemosina non ci pensava nemmeno.

La sera del 15 maggio 1905 la guardia di città, Rossi Angelo, faceva la solita ronda dopo mezzanotte. Già vicino la chiesa di San Pietro aveva visto che un lampione aveva i vetri rotti e il buio nella piazzetta era pesto. Non fece che altri dieci metri verso il convento dei francescani e trovò un altro fanale in frantumi. Infine – come scrisse a verbale –  sentì il rumore di vetri che si rompevano e vide una persona che tirava sassi contro un lampione di via Atenea. “T’aspettavo”, disse la donna quando la guardia troppo facilmente l’agguantò. Mise tutto a verbale, concludendo che “veniva messa in arresto Piccione Gerlanda di anni 37, di Girgenti, perché mediante un sasso e volontariamente aveva rotto i vetri dei fanali destinati alla pubblica illuminazione” (Archivio di Stato di Agrigento, sentenza n. 518 del 16 giugno 1905, inventario 9 fascicolo 23). Pertanto “ raccolte le indagini e risultati a carico dell’imputata sufficienti indizi di reità veniva in stato di arresto rinviata al giudice di questo tribunale “.

 All’incredulo presidente del Tribunale Filippo Diaz,  Gerlanda spiegò che non era pazza, né delinquente, ma disperata e ammise - come ci dice la sentenza - che “era vero aveva rotto lei quei fanali, ma l’aveva fatto perché ammalata e sperava con questo atto essere dopo che fosse stata arrestata, rimessa ad un ospedale ”.
Il vecchio giudice ne aveva viste tante il quella città di matti, ma una cosa come questa…Possibile che una onesta donna fosse costretta a farsi chiudere in galera per farsi curare ? A questo stato era ridotta la povera gente di Girgenti ? E così se l’avesse rimandata a casa per pietà, l’avrebbe di certo rovinata e condotta sulla strada della morte per fame. Per essere “giusto” il giudice Diaz dovette dargli il massimo della pena prevista: 15 giorni, ma da scontare nell’ospedale della città.

Non sarebbe stato l’unico disgraziato che avrebbe spinto alla commiserazione il giudice Diaz. Un anno dopo gli portarono un giovane, Giacomo Tagliavia. Il caso era grave: aveva dato una coltellata al padrone di una bettola. Ma di mezzo non c’era una donna, uno sgarbo, una mala parola o un equivoco. Quella era un’altra storia di miseria. Una storia di una giacca e di un bicchiere di vino.
La storia era cominciata quel giorno quando Giacomo era passato per il solito bicchiere nella bettola di mastro Ciccio, ma  non aveva soldi e disse al vecchio Ciccio che il mercoledì successivo l’avrebbe pagato. E quello tirò via da sotto il naso di Giacomo il bicchiere che gli aveva appena riempito e gli rispose “allora te lo vieni a bere mercoledì”. Fu allora che Giacomino pensò cosa impegnare e l’unica cosa che gli restava l’aveva addosso. Si sfilò la giacca e la buttò addosso al vecchio, dicendo: “prenditi questa in pegno, per tutto il mese. Per la festa di San Calò ti porto i soldi e mi ridai la giacca”. E Ciccio considerò l’affare e servì lo sprovveduto giovanotto. La sentenza a questo punto ci dice che una decina di giorni prima della festa di San Calogero, Giacomino si presentò per avere un boccale, ma Ciccio glielo negò. “Allora ridammi la giacca o t’ammazzo”, gli disse Giacomino. Ma quello si fece una risata e gli rispose: “vatinni, che di vino ne hai avuto fin troppo per quella lurida di giacca”. Giacomino gli tirò una coltellata e fuggì. Ma non sarebbe andato lontano, perché le guardie poche ore dopo l’arrestarono.
Adesso era dinanzi al giudice della Corte penale di Girgenti e considerava la fesseria che aveva fatto. Il grasso padron Ciccio era rimasto ferito, l’aveva denunciato subito, s’era tenuto il vino e anche la giacca e a Giacomino non erano rimasti che gli occhi per piangere, ma quelli non li poteva dare in pegno per pagarsi l’avvocato. Fu condannato a tre anni di galera.

Elio Di Bella

Altri racconti di Elio Di Bella su Agrigento e la sua provincia sul sito agrigentoierieoggi

«Ti viu a lu strittu di Sant'Anna», deliquenti per disperazione

AgrigentoNotizie è in caricamento