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Giovedì, 18 Aprile 2024
Cronaca Licata

Arrestato per un fucile a canne mozze nel magazzino ma non era suo, risarcito meccanico

I giudici della Corte di appello di Palermo riconoscono un indennizzo di 3.000 euro al quarantaduenne Emanuele Marino sottoposto a sedici mesi di misure cautelari

Poco più di 3.000 euro di risarcimento per 26 giorni di arresti domiciliari ai quali aggiungere (ma per cui non è previsto indennizzo) altri sedici mesi di misure cautelari minori.

I giudici della Corte di appello di Palermo, a cui si è rivolto l'avvocato Calogero Meli, hanno riconosciuto l'ingiusta detenzione subita dal meccanico licatese Emanuele Marino, 42 anni, arrestato dopo che i poliziotti, imbeccati da una fonte confidenziale, avevano trovato un fucile a canne mozze in un casolare di proprietà dello zio che aveva in uso da tempo.

"Quell'arma non è mia - aveva detto -, il rudere dove è stata trovata è accessibile da chiunque perché non ci sono porte e ha il tetto sfondato". Marino, dopo quasi due anni, si è visto riconoscere le sue ragioni e adesso pure il risarcimento ma è stato a lungo sottoposto a diverse misure cautelari. Il 23 giugno del 2015, dopo l'udienza di convalida, gli venivano applicati gli arresti domiciliari per l'accusa di detenzione illegale di arma e ricettazione. Il 16 luglio la misura veniva sostituita con l'obbligo di dimora, con divieto di uscire da casa negli orari serali. Soltanto il 30 aprile del 2016 gli veniva applicato l'obbligo di dimora al quale restava sottoposto fino al 2 novembre.

Il 14 settembre dell'anno successivo, infine, l'assoluzione "per non avere commesso il fatto" non impugnata dall'accusa e, quindi, diventata definitiva. Il legale di Marino ha chiesto il risarcimento che non è automatico ma, per ottenerlo, bisogna dimostrare di "non aver dato causa alla custodia cautelare per dolo o colpa grave". Marino aveva spiegato da subito di avere usato quel magazzino, molto tempo prima dell'arresto, per depositare mezzi e attrezzi dell'officina ma di non averne avuto più il possesso. Circostanza che, secondo la Corte di appello, fa ritenere che abbia voluto chiarire da subito e, quindi, sia meritevole di risarcimento da parte dello Stato.

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